Padova Jazz Festival 2010

Foto: Roberto De Virtis





Padova Jazz Festival 2010.

Padova, 15/20.11.2010


Il numero “13” porta fortuna al Padova Jazz Festival. Tredici sono infatti le edizioni di quello che è ormai diventato un appuntamento fisso – e tra i più prestigiosi – dell’autunno jazzistico e – a dispetto dei fantasmi della crisi e dei tagli alla cultura che aleggiano tutt’intorno – la rassegna ha festeggiato il traguardo con un programma vario e di gran qualità, dando un segnale di vitalità e di voglia di non arrendersi al conformismo imperante, oltre che un invito alle istituzioni e ai privati a credere e a investire nella cultura.


L’invito non è rimasto inascoltato perché il festival, organizzato come sempre con passione dall’Associazione Musicale Miles, quest’anno rientrava all’interno del contenitore “RAM – Nel segno della creatività”, progetto ambizioso voluto dall’assessorato alle politiche culturali del Comune di Padova, nel quale sono confluite le più diverse espressioni della cultura metropolitana contemporanea, dalla street art alla video-grafica. Il Padova Jazz Festival ha quindi colto in pieno lo spirito di contaminazione tra le arti, lasciando ampio spazio a incontri letterari (la “Storia del Jazz” per immagini, video e suoni di Francesco Sovilla e l’analisi condotta da Francesco Martinelli sul quadro King Zulu di Jean-Michel Basquiat), mostre fotografiche (quella di Michele Giotto dedicata ai volti del jazz) e art performance (il workshop di Anna Piratti al Sottopasso della Stua).


Quanto alla musica, si può dire che l’obiettivo del direttore artistico Claudio Fasoli sia stato quello di valorizzare la progettualità come valore principale della rassegna, tanto nei “piccoli” gruppi che si sono avvicendati all’Hotel Plaza per l'”Aperitivo in jazz” ed il suo prolungamento notturno (Aisha Ruggieri e Kubopower, il Newropean Quartet di Danilo Memoli, l’Alboran Trio, Pianocorde di Alessandro Fabbri, il duo Max De Aloe & Bill Carrothers, l’Egg Project di Roberto Nannetti) quanto negli artisti più blasonati del cartellone.


Omar Hakim ha inaugurato al Teatro MPX la serie degli appuntamenti più prestigiosi. Il batterista ha fatto della commistione tra jazz e rock un marchio di fabbrica fin dai tempi dei Weather Report e con il suo Trio Of Oz (Rachel Z al pianoforte e Solomon Dorsey al posto della bassista “titolare”, la gitano-irlandese Mave Royce) non ha fatto altro che aggiornarlo alla contemporaneità, alzando ancor di più il tasso di adrenalina. Il trio ha rielaborato un corposo repertorio di cover rock, spaziando dagli svedesi Dungen (Det tar tid) agli Alice in chains (Angry Chair), passando per Sour Girl e When We Were Young degli Stone Temple Pilots, King Of Pain dei Police e In Your Room dei Depeche Mode (caratterizzata da un pirotecnico assolo di Hakim che ha fatto da ponte verso Ain’t No Sunshine When She’s Gone), senza tralasciare un piccolo omaggio a Miles Davis con la sua ESP. Si sono potuti apprezzare gli arrangiamenti, freschi e dinamici, l’esuberanza del batterista e il variopinto cromatismo armonico di Rachel. Gli stessi musicisti sono parsi pienamente a proprio agio in questo contesto e soddisfatti della serata, tanto da concedere un generoso fuori programma.


Poco prima il trio era stato preceduto dall’esibizione di Loic Dequidt, pianista francese cresciuto musicalmente ai seminari di Siena Jazz sotto la guida di Furio Di Castri, con una spiccata inclinazione per il nomadismo musicale che lo ha portato a collaborare – e trovare grande affinità – con alcuni musicisti svedesi (Peter Nilsson alla batteria e Mattias Hjorth al contrabbasso) con i quali investigare suggestioni orientali (Ilama Ilama, una melodia di origini yemenite) ed europee attraverso un approccio collettivo misurato e raffinato.


Keystone è il nome del sestetto elettrico con cui Dave Douglas il più delle volte sonorizza film. L’ultimo si intitola Spark Of Being ed è ispirato a Frankenstein di Mary Shelley. Il progetto per la musica composta dal trombettista e le immagini di Bll Morrison (regista e artista visivo che ha raccolto filmati d’archivio e spezzoni tratti da vecchi film muti, montandoli in sequenze oniriche alla maniera dell’avanguardia francese) è stato presentato al Teatro Verdi. La colonna sonora, suddivisa in 13 capitoli che ripercorrono la storia del “mostro” (da un “Prologo” al malinconico epilogo con la “Solitudine della Creatura”), porta chiaramente con sé la cifra stilistica del suo autore, un’elaborata concezione ritmico-armonica arricchita in questo caso da sfumature “ambient”, frutto delle elaborazioni elettroniche di Geoff Countryman. Musica e immagini hanno dato l’impressione di essere un po’ slegate, di correre su binari paralleli che non s’incontravano mai: capita quando la personalità del compositore e del regista sono entrambe forti e ben delineate e nessuno dei due influenza l’altro. Forse è per questo che l’esibizione del gruppo è parsa a tratti “ingessata”, ma bastava chiudere gli occhi e lasciarsi andare all’ascolto per cogliere l’intelligenza della musica di Douglas e la coesione del gruppo (Markus Strickland ai sassofoni, Adam Benjamin al fender Rhodes, Brad Jones al baby-bass e Gene Lake alla batteria), tant’è che, sciolti dal vincolo della partitura, i due bis chiamati a gran voce dal pubblico hanno strappato applausi incondizionati.


Dalle sperimentazioni multi-disciplinari di Dougas alla musica elegante, felpata e rassicurante di Gary Burton. Classico e formalmente ineccepibile, il quartetto – ennesima riedizione dello storico quartetto per vibrafono, chitarra, contrabbasso e batteria – rappresentava l’incontro ideale tra il Quartet Revisited, dal quale proviene Antonio Sanchez, e la Next Generation con la quale il vibrafonista ha “svezzato” uno dei suoi giovani più promettenti, Julian Lage. Poche le sorprese e molte le conferme di questo progetto. Nel repertorio figuravano un classie della carriera di Thelonious Monk, uno di quei blues obliqui che Monk amava tanto, ingentilito dal suono liquido del vibrafono. Quanto ai musicisti, Sanchez e Scott Colley hanno confermato di essere una garanzia sul piano della qualità e dell’affidabilità, oltre ad essere dei compositori molto validi ai quali affidare il compito di rinnovare il repertorio, mentre Lage ha tenuto bene la scena, dimostrando con sicurezza di essere all’altezza degli illustri colleghi (Metheny, Scofield, Goodrick) che lo hanno preceduto nel ruolo di chitarrista dei gruppi di Burton.


Chi ha raggiunto con gli anni una serenità interiore e una saggezza invidiabili ma non rinuncia a spingersi sempre un po’ più in là è Charles Lloyd.


Il grande sassofonista americano è una delle voci più originali della sua epoca ancora in attività e nella combinazione di tradizione americana, melodie folk e spiritualità orientale è sintetizzato il percorso di una vita intera. Per più di due ore Lloyd ha tenuto il pubblico con il fiato sospeso con un set mermorabile, palpitante e generoso, sospeso tra spiritualità e furore. Lloyd si è cimentato al tenore, al flauto e al tarogato (raro strumento ad ancia della tradizione musicale ungherese e rumena), con un repertorio che toccava, tra l’altro, gli ultimi due dischi in quartetto, Rabo de Nube e Mirrors: dalla modale Ramanujan agli arrangiamenti di due traditional, Go Down Moses e The Water Is Wide, la musica non ha mai mostrato cali di tensione nemmeno per un minuto. Al contrario ha palesato lo stato di grazia in cui versa il sassofonista che all’inizio di Tagi si è anche seduto al pianoforte, recitando una poesia indiana.


Lloyd si è fatto accompagnare dal trio di splendidi musicisti che lo supportano da qualche tempo (Jason Moran e Eric Harland, compagni da molti anni che hanno sviluppato una totale empatia, e Reuben Rogers, bassista di origini caraibiche e grande musicalità). Un quartetto stellare in tutto, dalla coesione del gruppo alla caratura dei singoli, che ha regalato a tutti una serata davvero magica.