Slideshow. Marco Fumo

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Marco Fumo.


Jazz Convention: A bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Marco Fumo: È un lavoro di tipo antologico per un’etichetta che distribuisce solo su internet (On Classical) e che quindi è limitata all’incisione di musiche con diritti scaduti: ci sono musiche di Turpin, Joplin, Scott, Beiderbecke, Gershwin ecc., brani di cui esistevano già mie incisioni e brani che non avevo ancora inciso: credo che l’uscita sia abbastanza prossima.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


MF: Molto semplice: il suono di un pianoforte da una finestra che dava su un giardino in cui giocavo. Era la stanza in cui un’insegnante di pianoforte impartiva le sue lezioni e presso la quale mi feci accompagnare per chiederle se avesse voluto fare lezione anche a me. Avevo cinque anni… attrazione fatale!!!



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un pianista?


MF: Nella risposta alla domanda precedente ci sono le circostanze che mi hanno fatto accostare allo strumento e tutta l’istintività di un bimbo, le motivazioni sono poi venute col tempo, visto che avevo un’enorme facilità di apprendimento e tutto mi sembrava semplice ed ovvio. Quindi per me fare il pianista era una specie di facile gioco che mi divertiva e mi gratificava.



JC: E quindi?


MF: Naturalmente ho pagato successivamente a caro prezzo questo mio atteggiamento iniziale, quando poi mi sono accorto che la facilità non risolveva tutti i problemi che mi si presentavano e mi sono reso conto come fosse solo un buon viatico per cominciare, ma che poi servissero tantissime altre cose per poter portare avanti il suonare come una professione. Troppo tardi, ormai ero in ballo e dovevo ballare, anche perché alla fine era un modo per uscire dalla “normalità” della mia famiglia.



JC: Una scelta coraggiosa…


MF: Del resto ho fatto il Liceo Classico e mi ero anche iscritto all’Università: a casa mia fare il musicista non era considerata una professione e all’inizio questo indirizzo dei miei ha molto condizionato le scelte e le opportunità relative al completamento ed al livello del mio fare il pianista e lì la mia facilità mi ha molto aiutato, nel senso che non avrei fatto a tempo a fare tutto se non l’avessi avuta, però dopo…



JC: E a scegliere il jazz e il ragtime oltre altre musiche?


MF: Da ragazzino mio zio Lucio mi faceva ascoltare molti dischi di jazz e di pianisti jazz, avevo messo su un piccolo complessino col quale facevamo prevalentemente musica leggera, ma nei tempi morti ci dilettavamo a suonare qualche standard tipo How high the Moon, Moonglow o Lullaby of Birdland (parliamo degli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta) quando bisognava ancora contrabbandare queste cose in certi ambienti, compresa la mia famiglia. La mia storia comunque si indirizzò decisamente verso la musica classica, anche per via dei miei, che vollero il Diploma al Santa Cecilia ed i crismi di un ambito “serio”. Tutto ciò mi impedì di cercare strade percorribili per studiare jazz e quindi l’aver scelto all’inizio degli anni Ottanta di accostarmi al Ragtime fu una specie di recupero dei sogni perduti, una specie di scelta riparatrice rispetto a quello che avevo fatto sino ad allora e che non corrispondeva appieno alla mia personalità musicale.



JC: E successivamente?


MF: Dal Ragtime sono arrivato a tutto il repertorio da cui il Ragtime direttamente o indirettamente derivava ( la musica africana americana in genere) ed a quello successivo da esso scaturito (stride piano) completando così un percorso poco battuto e poco capito dai più e ritagliandomi uno spazio originale e molto stimolante.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


MF: Al di là di tutti gli studi etimologici e semantici che non hanno chiarito fino in fondo cosa significhi la parola jazz, ritengo che abbia un significato in quanto ha una sua genesi un suo sviluppo ed un suo futuro come parte di un contenitore molto più ampio che è costituito da tutta la produzione musicale africana americana.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


MF: È la massima possibilità di espressione dell’essere musicisti liberi e completi, capaci di plasmare la materia sonora e di piegarla alle proprie capacità, alle proprie tendenze, alle proprie radici, alla propria creatività, alla propria cultura, alla propria sensibilità musicale ed umana. Infine, è l’unica musica che è disposta e disponibile ad adeguarsi alla globalizzazione proprio grazie alla impossibilità di definirla e circoscriverla, una musica essa stessa globale e sempre in movimento con questa sua capacità di accogliere tutti e tutto.



JC: E suonare il piano?


MF: È la possibilità di ricercare dentro se stessi tutte le capacità espressive di cui si è capaci e nel mio caso specifico anche la possibilità di approfondire repertori sconosciuti o poco frequentati, trovare rapporti, assonanze, somiglianze, legami anche in mondi apparentemente lontanissimi, ma molto più vicini di quello che si possa percepire: insomma è un modo per tentare di crescere conoscendo, anche se la mia profonda ed incorreggibile pigrizia è stata un grande ostacolo a fare di più e meglio.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


MF: Penso che dalle risposte alle domande precedenti si possa intravvedere una grande ammirazione per tutto ciò che attiene al mondo del jazz ed un grande rammarico per averlo vissuto solo marginalmente e da lontano, attraverso il ripercorrere le sue origini ed i suoi presupposti, senza avere le possibilità di conoscerlo e approfondirlo dall’interno.



JC: Anche per motivi extramusicali?


MF: Probabilmente oltre alle occasioni dovute al periodo della mia formazione, al fatto di vivere in una città di provincia, alla mancanza allora di qualsiasi tipo di scuola da poter frequentare (c’è una mia lettera pubblicata su Musica Jazz del 1962 in cui chiedevo come potessi fare ad accostarmi a questa musica!!!) ho capito alla fine che forse non avrei neppure avuto quelle caratteristiche culturali e caratteriali necessarie per poter essere un buon musicista di jazz. Ma non soffro più di tanto per questo, ho fatto altro e l’importante è concludere qualcosa, in qualche modo realizzare un progetto.



JC: E sul piano didattico?


MF: Anche didatticamente ho cercato di svolgere un ruolo di rinnovamento all’interno del repertorio tradizionale dei Conservatori, portando la musica africana americana all’interno del tempio della musica classica attraverso corsi straordinari, seminari e, alla fine, addirittura con un biennio di specializzazione in Letteratura Pianistica Africana Americana.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


MF: Come dicevo sopra, penso che sia la musica globale per eccellenza, quella giusta per la globalizzazione…



JC: Svelaci quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte…


MF: Da ragazzo i pianisti che ascoltavo di più erano Erroll Garner, Oscar Peterson e mi piaceva moltissimo l’essenzialità di John Lewis, più avanti Bill Evans e Thelonius Monk mi affascinavano entrambi moltissimo pur essendo così diversi tra loro, come Benedetti Michelangeli e Arthur Rubinstein.



JC: …nella musica…


MF: Passando dai pianisti ad una visone più generale della musica Bach su tutti: la bellezza e nello stesso tempo la precisione “matematica” della sua musica è sconvolgente tanto quanto la sua pazzesca attualità.



JC: …nella cultura…


MF: Come dicevo prima ho fatto il Liceo Classico e quindi un’infarinatura culturale di base, sempre tenendo presente la mia pigrizia, l’ho avuta e devo dire una forma mentale che poi mi è tornata utile in tante cose.



JC: …nella vita…


MF: La mia famiglia, intendo proprio la mia (mia moglie, i miei figli e me) è stata una grande maestra di vita per me e mi ha permesso di crescere in maniera decisiva.



JC: Il momento più bello della tua carriera di musicista?


MF: Tanti devo dire, malgrado tutto, e non ne ho uno in particolare che ricordo più di tutti gli altri.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


MF: Nella mia vita musicale ho avuto tanti momenti belli come dicevo ed ho avuto la fortuna di collaborare con tanti personaggi fantastici, a partire da Nino Rota, che ho avuto come Direttore del Conservatorio in cui insegnavo all’epoca e come Direttore d’orchestra in una memorabile (per me) esperienza insieme ( lui direttore ed io solista) per l’esecuzione del suo Concerto Soirée per pianoforte e Orchestra: un grande musicista ed una persona eccezionale.



JC: E poi hai lavorato tanti anni con Ennio Morricone…


MF: Sì, con le sue bellissime colonne sonore ed anche con la sua produzione contemporanea, partendo dall’esperienza di un brano ispirato al Ragtime che lui ha scritto per me dedicandomelo (Rag in frantumi). Nel mondo del jazz bellissime esperienze orchestrali come solista le ho avute con Enrico Intra, Giorgio Gaslini e specie con Bruno Tommaso come direttori e poi bellissime serate in duo pianistico con Kenny Barron ed Enrico Pieranunzi, due veri maghi del mondo del jazz. Per il resto il mio repertorio mi porta ad esibirmi da solo e quindi le mie esperienze di collaborazioni non sono così numerose purtroppo.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


MF: Ho un altro progetto discografico di grande impegno (questa volta monografico) in cantiere a cui sto già lavorando da un po’, ma non so quando riuscirò a portarlo a compimento: spero presto, entro il 2011.