Filomena Campus. La voce ancestrale del canto

Foto: da internet










Filomena Campus. La voce ancestrale del canto.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Filomena Campus: Jester of Jazz è un progetto originale nato a Londra dalla collaborazione con il bassista Dudley Phillips e il pianista Steve Lodder. Loro hanno scritto le musiche che hanno ispirato i miei testi. L’idea del giullare del jazz nasce dal mio lavoro nel teatro, e in particolare si riferisce al significato originario del termine “giullare”. Mi sono ispirata alla motivazione del Premio Nobel a Dario Fo, dove si legge: “che nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati”.



JC: Dunque, oltre il jazz c’è anche il teatro?


FC: In questo lavoro ho infatti unito le mie due passioni, il jazz e il teatro, esplorando l’uso della voce e l’improvvisazione come un grammelot, come farebbe un clown, a volte letteralmente con l’uso di maschere o del naso rosso. Alcuni testi sono ispirati da opere di Benni, Fo, Rame e altri autori e contengono un impegno che definirei civile, forse necessario in un momento come quello che stiamo vivendo. Un tempo in cui, come dice Franca Rame nelle note al mio album riferendosi ai clowns, “ridere non basta più.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


FC: Mia madre mi racconta che già da neonata mi agitavo quando sentivo musica. Credo che l’effetto non sia mai passato…



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista jazz?


FC: Alla base c’è stata una curiosità infinita verso suoni nuovi, con il jazz mi sono sentita subito “a casa”. Più che motivi, direi che ci sono stati forse incontri e momenti preziosi che mi hanno ispirato, incoraggiato a scegliere questa strada. Vanno da Pat Metheny a Paolo Fresu, da Maria Pia De Vito a Sheila Jordan e molti altri. Il seminario jazz di Nuoro ha avuto sicuramente una parte importante nell’aiutarmi a riconoscere il jazz come scelta di vita.



JC: E in particolare una cantante jazz?


FC: Il canto è la mia espressione primaria, necessaria, forse “ancestrale”, come dice Fresu nelle note di copertina al mio cd. Anche se da piccola avevo una chiarissima inclinazione per la musica e mi sarebbe piaciuto tantissimo suonare uno strumento, nella mia famiglia e nella piccola cittadina, dove sono cresciuta in Sardegna, Macomer, non esisteva alcuna cultura musicale. Lasciare la famiglia a 14 anni per frequentare il conservatorio a Sassari (cosa che avevo timidamente tentato e chiesto di fare) era assolutamente impensabile allora. Gli strumenti mi hanno sempre affascinato moltissimo, in particolare il piano e la chitarra, ma la voce è sempre stata il mio primo bisogno e mezzo per fare musica. Un’esigenza, non solo un piacere.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


FC: Si, anche se le connotazioni oggi si sono amplificate e moltiplicate, includendo una babele di ritmi, linguaggi e suoni che spesso hanno arricchito la musica e la sua storia, a volte solo chi la suona…



JC: Ma cos’è per te il jazz? Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


FC: Libertà, espressione, creatività pura, senza filtri. Comunicazione, esplorazione, rischio, sfida, scoperta continua, cooperazione, magia, interplay, emozione, ironia, rabbia, felicita, eleganza. Imparare ad ascoltare l’altro, a scoprire il proprio suono e la propria essenza. Avere il coraggio di esprimerla, di farsi sentire. Senza urlare.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


FC: Non finirà mai, perche il jazz sfugge per sua fortuna a qualsiasi definizione. O comunque, appena ne viene coniata una, subito si crea un’altra possibilità.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel canto, nella musica, nella cultura, nella vita?


FC: Sono tanti, davvero tanti. Thelonious Monk, Paolo Fresu, Maria Pia De Vito, Orphy Robinson, Cleveland Watkiss, Maria Joao, Franca Rame, Dario Fo, Augusto Boal, Judith Malina, Eugenio Barba, Roberta Carreri, Fellini, Pina Bausch, Maria Carta, Stefano Benni, Peter Brook, Marcello Magni di Complicite, e molti altri.



JC: Cosa c’è della Sardegna nella tua voce e nella tua musica?


FC: Ho scoperto quanta Sardegna c’è nella mia musica e nella mia voce molti anni dopo aver lasciato l’isola. Il mare c’è sempre stato, fa parte di me. Negli ultimi anni ho trovato nuove sonorità nella voce e una voglia sempre più prepotente di riscoprire le mie radici negli antichi canti sardi, nelle armonie, nei suoni meravigliosi delle voci sarde, che ritrovo oggi ad esempio nella voce di Elena Ledda.



JC: Mi sembra che anche il grande Paolo Fresu la pensi come te…


FC: Credo che Fresu nelle note di copertina abbia colto profondamente il mio legame profondo con l’isola, la nostra isola, con il suono antico delle madri. Nel disco ci sono tre brani totalmente dedicati alla Sardegna, Sabbia e Mirto, Summer Lights, ispirato a una bellissima poesia di Maria Carta, e soprattutto una canzone sarda, No Potho Reposare in un arrangiamento molto originale del bassista del mio quartetto, Dudley Phillips. Nei suoi ultimi anni di vita la mia splendida nonna non parlava quasi più, si esprimeva unicamente cantando o recitando a memoria poemi antichi in sardo, in particolare No Potho Reposare. Dalla sua voce alla mia. Ora sono io che la canto per lei.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


FC: Quello che sto vivendo è sicuramente uno dei momenti più belli nella mia carriera, perche questo è un progetto che sento profondamente mio e che ha appena iniziato il suo cammino. Ci sono poi altri splendidi momenti, anzi “epiphanies”, “epifanie”, come l’incontro con il vibrafonista Orphy Robinson a Londra. Quando mi invitò a partecipare al Nubian Vibes Tour in UK nel 2002 con una band che includeva alcuni tra i migliori jazzisti inglesi per me si apri un nuovo mondo, che mi accolse e mi spinse a migliorare, a rischiare, a improvvisare, ad ascoltare la mia creatività e trovare la mia voce. Anche il lavoro con la London Improvisers Orchestra è stato fondamentale per scoprire le possibilità della mia voce.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


FC: Sono sempre alla ricerca di nuove collaborazioni. Credo di avere un talento speciale nel mettere insieme persone e creare sinergie e progetti. Negli ultimi anni ho lavorato con molti musicisti sia a Londra che a Berlino. Devo ammettere che mi diverto molto con chi ha la capacità di lasciare la struttura del brano, se si crea l’occasione, e di esplorare qualcosa di nuovo, anche per pochi attimi.



JC: E comunque t’incontri spesso con musicisti insigni…


FC: Per la presentazione del disco a Londra Fresu è stato ospite per due sere del nostro quartetto insieme a Jean Toussaint (che Art Blakey volle nei Jazz Messengers). Nonostante ci leghi un’amicizia di diversi anni, non avevo mai suonato con Paolo. Nel concerto, soprattutto la seconda sera, ci sono stati momenti unici, che mi hanno commosso profondamente. Spero che ci siano presto altre possibilità per collaborare.



JC: Perché vivi e lavori in Inghilterra?


FC: Vivo a Londra dal 2001, e da un anno trascorro anche molto tempo a Berlino. Anche se ci sono molte difficoltà Londra ha una caratteristica preziosissima: è una vera babele di culture. Musicalmente ha una ricchezza infinita, poiché ognuno porta i suoi ritmi, accenti, tutto il suo mondo nella musica che si suona insieme. Umanamente è la scoperta meravigliosa e quotidiana di come migliaia di culture, religioni, colori e lingue diversissime possano convivere. Ci sono anche molti altri motivi, ma ci vorrebbe lo spazio di un’altra intervista!



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato?


FC: Vorrei lavorare a un progetto di pura improvvisazione. Dialoghi, incontri con musicisti con cui ho già lavorato e con cui vorrei esplorare possibilità sonore in duo o piccole formazioni. Tra questi Evan Parker, Pat Thomas, Paolo Fresu, Orphy Robinson, Byron Wallen, Andreas Schmidt, Laurent De Wilde e sicuramente un duo vocale con Cleveland Watkiss.