Slideshow. Larry Franco

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Slideshow. Larry Franco.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo album Fahrenheit?
Larry Franco: Questo lavoro discografico è nato inizialmente dal desiderio di fare un omaggio a Nicola Arigliano che tutti noi abbiamo conosciuto e con cui noi tutti abbiamo suonato, in particolare Giampaolo Ascolese. Successivamente si è pensato di allargare la cosa e di includere altri due personaggi, che come Arigliano, facevano parte del mondo dei Night Club: Bruno Martino e Fred Buscaglione. Anche perché scherzando una sera era venuto fuori questo nome: Fahrenheit. E da qui fare night, è diventato Fahrenheit, il titolo del cd, per celebrare e tenere in vita lo Swing di cui si vanno perdendo i ricordi… come spesso io lo definisco: lo Swing questo sconosciuto!



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


LF: La musica ha fatto parte della mia vita sin da piccolissimo. Ricordo mia madre, profuga friulana della Venezia Giulia, che suonava la fisarmonica e mi cantava spesso le canzoni degli alpini, stimolandomi a fare la doppia voce, e ricordo che spesso io la correggevo quando non cambiava al momento giusto un accordo… le dicevo “cambia, cambia!” Già a sei anni sentivo quando l’armonia non era giusta: questa musicalità mi ha accompagnato poi sempre, direi che è nata con me.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un cantante jazz?


LF: Sentivo il desiderio di cantare sin da piccolo, ma quando ci provavo pensavo di non avere le qualità (evidentemente perché spesso sceglievo di cantare interpreti con estensioni di voce diverse dalla mia, ma all’epoca non capivo questo), ho persino fatto parte di una band di sette in cui tutti cantavano tranne me (ora, tra loro, sono l’unico a cantare) e fino a venticinque anni pensavo di non poterlo fare. Poi un giorno ho visto un cantante con una Big Band – un certo Ninni Maina – e allora ho deciso che sarei diventato come lui. Ho provato a cantare il repertorio di Sinatra e mi calzava a pennello. E così da quel momento ho iniziato a cantare gli standard americani, collaborando con diverse Big Band fino a giungere a cantare alla Rai nella trasmissione radiofonica “Stasera a Via Asiago” di Adriano Mazzoletti. Ho cominciato anche a cantare con piccoli gruppi fino a quando poi ho conosciuto Nicola Arigliano. Da quel momento ho iniziato anche a cantare le canzoni italiane swing degli anni Cinquanta.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


LF: Sì, certo! il jazz per me è il modo di esprimere i propri sentimenti attraverso le note musicali creando atmosfere che rispecchiano i nostri stati d’animo, e così dovrebbe essere per tutti. Non delle esecuzioni scolastiche con migliaia di note, ma comunicare i propri sentimenti attraverso il proprio strumento e raggiungere il cuore del pubblico. Questo è il Jazz per me.



JC: Ma allora cos’è per te il jazz? e il canto?


LF: È tutta la mia vita, non potrei vivere senza cantare e suonare jazz. Quando canto mi libero da tutto e butto fuori le tensioni della vita quotidiana, e mi inebrio della mia musica e di ciò che canto!



JC: Difficile cantare jazz oggi in Italia?


LF: Dal punto di visto commerciale, non tanto, cantano tutti, ma dal punto di vista dell’etica musicale, direi di sì, dato che a mio avviso di voci jazz ce ne sono davvero poche, di cantanti invece, ce ne sono moltissimi.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associo alla musica jazz?


LF: Io mi ritengo un privilegiato, rispetto ai comuni mortali che non hanno sensibilità per la musica, ritengo i musicisti, ed in particolare i musicisti jazz, delle persone speciali e ritengo che il Jazz sia la più bella musica al mondo. Ovviamente è una opinione personale!



JC: Come pensi che si evolverà il canto jazz del presente e il jazz del futuro?


LF: Spero che rimanga ancora qualcuno che conservi la tradizione del “bel canto”: è bello sperimentare ogni tanto, ma è bello anche saper cantare una melodia così come è stata composta. Credo che la tendenza a voler modificare tutto, porti a far dimenticare le radici, la tradizione e le melodie e tanti nuovi cantanti in erba, purtroppo, imparano prima a fare lo scat e poi la melodia… per non parlare del significato delle parole in inglese e dell’interpretazione legata alla conoscenza del testo. Quasi nessuno sa cosa stia cantando! Secondo me è questo il vero problema degli pseudo-cantanti jazz. Non potrò mai accettare un cantante jazz che non sappia cantare una melodia così come è stata composta e che non conosca il significato delle parole. Detto questo ho la convinzione che saper cantare è un dono di natura e non si impara a scuola. A scuola si può migliorare con un buon insegnante, ma si nasce cantanti. Così come si nasce musicisti: se non si ha la musicalità innata, non si può diventare musicisti. È quella marcia in più di cui parlavo prima!



JC: Tra i dischi che hai fatto ce n’è uno a cui sei particolarmente affezionato?


LF: Sono affezionato a tutti i mie cd. Ne ho fatti 16 o 17 a mio nome più delle collaborazioni: ognuno rappresenta un periodo della mia vita, sono tutti ugualmente importanti per me.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel canto, nella musica, nella vita?


LF: Potrei dire Frank Sinatra, Nat King Cole, Tony Bennett, Nicola Arigliano e ogni cantante che mi ha dato emozioni, anche di altri generi musicali – lirica, pop, country. Ho sempre cercato di imparare ascoltando i maestri e di cogliere l’essenza della loro magia. Poi il mio maestro di canto, quello che per un certo periodo mi ha dato dei consigli preziosi su come affrontare il palco e il Jazz è stato Gene Merlino a Los Angeles nel 1994-1995 periodo della mia vita in cui ho vissuto in California.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


LF: Quando sono sul palco, quando la musica mi pervade e quando sento che il pubblico è immobile, catturato dalle atmosfere che riesco a creare e quando arrivano gli applausi “veri”. Beh… anche quando scendo dall’aereo in un paese esotico dove mi aspetta un concerto: è bello tutto, dai viaggi, alla preparazione del tour, al sound check, e poi il concerto. Amo fare il musicista e non potrei fare altro nella vita. Io associo molte cose alla musica, per esempio, non posso iniziare un concerto senza il profumo di un Cuba Libre, preparato come ci hanno insegnato a Cuba dove siamo già stati già quattro volte: Havana 3 (rigorosamente) e Coca Cola in egual misura, senza ghiaccio e con una goccia di angostura! Poi anche associare spesso i cibi dei luoghi in giro per il mondo, i profumi dell’aria, scambiare il giorno con la notte… tutto questo è musica! Dunque non identifico il momento più bello in un particolare momento, ma nel vivere bene la vita da musicista: così il momento più bello dura più a lungo…



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


LF: Amo collaborare con i miei amici musicisti di sempre, e con i musicisti con la “M” maiuscola, quelli che sprigionano musica da tutti i pori della pelle e con quelli che dimostrano di avere grande musicalità.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


LF: Dopo vari anni sono ritornato a suonare con le stesse formazioni che avevo in passato, quasi come un cerchio che si chiude cogliendo ciò che prima non poteva essere colto. Ho ripreso i miei primi progetti supportati ora dalla maturità acquisita in tutti questi anni e faccio la musica dei progetti che sento più miei: il trio alla Nat King Cole, il progetto dello Swing Italiano ed il progetto “Import-Export” che è il più originale tra di essi e che mi ha portato a girare il mondo sui palchi dei più grandi Festival – Java Jazz International a Jakarta, Manly Jazz festival a Sydney, Yokohama Jazz Promenade in Giappone, Dubai International, Abu Dhabi International, Europafest di Bucarest, Rottweil Jazz festival, Jazz En Nord in Francia. Intendo continuare a portare la mia musica ovunque. Però mi piacerebbe avere anche in Italia il successo che ho all’estero – non mi lamento però… intendiamoci. Qui in Italia sembra tutto più difficile in quanto in giro si sente parlare solo e sempre delle stesse persone oppure ci si apre troppo agli stranieri. In Italia questa apertura verso gli artisti americani (che sono la maggioranza) o di altre nazionalità, non è ben regolamentata a mio avviso. Noi apriamo le porte a tutti, mettendo da parte un po’ gli artisti italiani, (a parte i pochi di cui prima) mentre all’estero se suona uno straniero, deve suonare in egual misura un artista locale. Ma c’est la vie!