Fred Hersch – Alone at the Vanguard

Fred Hersch - Alone at the Vanguard

Palmetto Records – PM 2088 – 2011




Fred Hersch: pianoforte






C’è un curioso parallelismo nell’uscita pressoché contemporanea giusto in questi giorni di un solo-live a firma di Fred Hersch e Brad Mehldau. Entrambi indiscutibili protagonisti della tastiera, essi sono stati toccati in modo sensibilmente diverso da popolarità e attenzioni, dovendo il secondo fronteggiare altalenanti salti creativi con esposizioni all’azzardo stilistico, laddove il primo ha mostrato coerenza nell’irregolarità del suo curioso e colto linguaggio, porgendo come biglietto da visita cifrario sghembo e (ma non sempre né soltanto) tratto anti-melodico arricchito da un pimpante e intelligente spirito caustico e satirico. Se questo interessante protagonista della tastiera aveva disertato un po’ la scena non è stato per gli altalenanti stati d’ispirazione di certi suoi omologhi (non difficile capire a quanti vada il riferimento) quanto per il recente, difficile inciampo di salute cui segue l’attuale e concentrata ripresa. Appena composta una instant-suite dal titolo My Coma dreams per undici strumentisti, un recitante e animazioni multimediali, basata sul materiale da sogno – ed incubo – che ha occupato due mesi recentemente trascorsi tra la vita e la morte (idea non così macabra né estrema, si pensi all’analogo The Last sleep of the Virgin del ben distante John Tavener), viene giusto adesso affidato alle stampe per Palmetto Records questo solo-live al Vanguard: dopo essre stato il primo pianista ad aver fatto un’intera settimana in solo al Village, cinque anni fa, quest’ultimo disco esce nel quadro di un’ultima analoga settimana.


Con Hersch percorriamo dunque in tempo quasi reale la sua nuova fase vitale ed artistica, che non devia radicalmente dal suo patrimonio formativo “Tra Bill Evans e Monk direi che quest’ultimo è un’influenza molto più importante; quanto alla sonorità, mi sono rifatto ad artisti che trovo molto forti ritmicamente – Monk appunto, e Ahmad Jamal, Paul Bley, Earl Hines, e soprattutto quest’ultimo è incredibile nell’affrontare ogni rischio. Poi, a darmi la carica nel cimentarmi nel jazz sono state delle vecchie incisioni di Mingus e Davis, scrittura e swing incredibili, pur essendo di fatto più un autodidatta. La cosa più importante per me rimane il suono: una volta compreso come ottenerlo posso porlo in legame al ritmo, ed è così che si ottiene della musica – se invece, per carenza di conoscenze profonde siete in conflitto con suono e ritmo non potrete suonarla. E’ la sonorità l’elemento cui mi sono più esercitato dove altri hanno invece ricercato la destrezza; peraltro, non c’è un problema fisico, il piano è come uno specchio – ti rende ciò che vi poni”.


Queste precisazioni di prima mano in realtà poco aggiungono alla fruizione di un interprete ricco e sensibile, anzi riuscirebbero limitative alla sua complessa fisionomia sonora, e questo album funge da completamento all’immagine live della precedente esperienza in trio nel medesimo club (con Nasheet Waits e Drew Gress). Accomunato dalle dense nebbiosità della ben calata dimensione da club, l’esperienza individuale ne offre però una rappresentazione forse meno poliedrica: poco attratto rispetto ai suoi omologhi dalla riesposizione di pop-covers (spesso inaspettate se non improbabili) o del recupero delle Broadway-songs, in questo programma s’espongono dunque un po’ meno gli attributi inventivi ma si onorano certo i tributi creativi alla lunga distillazione evansiana e alla spessa linea blu monkiana. La discorsività privata ma fluente non teme di declinare la vena classicista o attingere ad un sincopato proto-jazz (tali le prime due tracks), e il programma si snoda tra la marcata dissonanza dell’omaggio a Lee Konitz e la più esplicita e letterale citazione classica (Robert Schumann in questo caso).


In una peculiare coesistenza di stati rarefatti e acuta incisività, mantenendo ampie le strategie costruttive s’avverte uno sguardo mirato più alla calligrafia che al graffio, con il legittimo dubbio circa l’impatto di un così drammatico passaggio di vita sull’ulteriore evoluzione estetica “Necessariamente si, chiarisce Hersch. Giungere così vicini alla morte senza dubbio vi cambia”.


To be continued…