Dodicilune Dischi – Ed274 – 2010
Mariano Di Nunzio: tromba, effetti, harmonizer
Massino De Stephanis: contrabbasso
Daniele Fusi: batteria
Sandro Marra: sax alto, clarinetto
Andrea Rellini: violoncello
Rispetto alla più popolare e certamente accattivante forma di Concerto (nota ad esempio grazie ai popolari exploits vivaldiani), la Sonata (i classicisti concorderanno) se di primo acchitto concede assai meno spazio alla spettacolarità, è una tipologia compositiva che all’ascoltatore più paziente e curioso può donare contributi ben più ricchi sul piano dell’elaborazione, ponendosi come contenitore più prezioso dell’invenzione compositiva. E con ogni probabilità da questa filiazione si muove la proposta del pianoless-trio di Mariano Di Nunzio che per l’occasione si sposa a due voci dell’orchestra classica, clarinetto e violoncello; la qual cosa, se non è poi un’assoluta innovazione in quel jazz che ha già da tempo ben aperto le sue camere non solo al classico ma anche all’etnico, al popolare e all’elettronica, tratteggia comunque i segni stilistici, nonché le energie e insieme le curiosità e il garbo dell’autore.
Mantenendo della scrittura classica più la disciplina delle voci che il patrimonio di scrittura,
la progressione dei blocchi rispetta il carattere di “sonata” alternando umori e sentire; tenendo in sospensione sulle (rare) elettroniche e sulle dense note cello-clarinettistiche un’idea del jazz di trame leggere, si snodano gli interventi lacerati del sax, o i lunghi passaggi esplorativi del violoncello (in realtà non troppo classicista, speso piuttosto in contemplazioni dense à la David Darling). La tromba viaggiante e narratrice di Di Nunzio, se di concerto con i partner assume (o dovrebbe) del carattere della sonata i caratteri d’intimismo ed alternanza, allorché s’infittisce nell’esposizione lascia ampiamente emergere le lunghissime ombre (difficile evitarle del resto) delle grida davisiane; se delle sonorità preziose degli strumenti da camera assorbe il carattere etereo ed il garbo espositivo, nelle esternazioni d’ensemble esprime la pressione e le energie delle concitazioni metropolitane.
Più che gioco futile e auto compiaciuto, dimostrando (ma ve n’era bisogno?) come classicità non escluda invenzione e rispetto della forma non escluda emozione, un lavoro da non liquidare e da riascoltare superando le apparenze del “già sentito”, cui si potrà conferire almeno il coinvolgente carattere di cospirazione furtiva, lieve e appunto sonatistica.