Slideshow. Stefano Risso

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Slideshow. Stefano Risso.


Jazz Convention: Così a bruciapelo, Stefano, puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Stefano Risso: Il mio nuovo lavoro discografico sarà Stefano’s Barber Mouse plays Subsonica. Qualche anno fa (i progetti purtroppo ci mettono sempre un po’ di tempo a concretizzarsi) ho capito che mi sarebbe piaciuto riarrangiare i brani di un gruppo della musica “indie” italiana. Mi sembrava la diretta conseguenza dei miei primi due dischi “Vocifero canzoni” e “Vocifero composizioni”, il mio omaggio alla vocalità femminile. Ho preso in considerazione molti gruppi italiani e dopo un attenta analisi, ho constatato che i brani dei Subsonica contenevano un materiale melodico, e in certi casi anche armonico, che si prestava bene al lavoro che avevo in mente. Ho riarrangiato, in alcuni casi in maniera anche molto invasiva, una quindicina di brani e li ho sottoposti a Fabrizio Rat e Mattia Barbieri. Abbiamo incominciato ad ragionare sul materiale cercando soluzioni timbriche inconsuete, suonando con gli strumenti preparati, pratica che nell’improvvisazione totale è frequente, ma lo è meno in musiche che abbiano un profilo armonico e melodico più convenzionale. Una volta registrato il materiale ho fatto arrivare le tracce ai diretti interessati (i Subsonica):il lavoro è stato così apprezzato da coinvolgere Samuel, il cantante, a partecipare cantando in 8 brani su 11 di quelli che saranno sul disco. Sono molto contento del risultato finale e del gruppo. In Stefano’s Barber Mouse tutti mettono dell’energia, tanto è vero che abbiamo registrato in passato un repertorio dedicato a Monk diretto e arrangiato da Fabrizio e ora stiamo concludendo un nuovo repertorio, da un’idea di Mattia, sui brani di Mao con Mao stesso alla voce.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


SR: La mia prima esperienza con la musica è stata decisamente traumatica. Mia madre mi fece frequentare un corso di chitarra durante le ore del doposcuola, in quinta elementare. Non so bene per quali motivi (uno sicuramente la poca capacità dell’insegnante a fare appassionare alla materia) dopo un anno dissi a mia madre che odiavo la musica e non avrei mai più suonato. Da quel momento me ne sono tenuto distante per molti anni. Il mio riavvicinamento è stato poi un po’ casuale durante gli anni delle superiori. La volontà di formare un gruppo con degli amici. Io scelsi il basso perché aveva quattro corde e mi sembrava più facile…



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista di jazz?


SR: L’amore per il jazz è arrivato poco dopo aver ripreso a suonare. Suonavamo con un gruppo che si chiamava O.K.A. facevamo del “punk” ed eravamo spesso a casa di Guido. Il padre era un appassionato di jazz e spesso ascoltavamo i suoi dischi. Era tutto un po’ velato di mistero: non capivamo bene come fosse organizzata quella musica e forse proprio per quello amavamo ascoltare quei dischi. Quando poi da Cuneo mi trasferii a Torino per l’università mi iscrissi al Centro Jazz: continuavo ad essere affascinato da quella musica e volevo capirne di più. Da quel momento il passo è stato breve e la passione per li jazz e per il contrabbasso si è insinuata sotto pelle naturalmente. Non sono più riuscito a smettere.



JC: Ha ancora un significato la parola jazz?


SR: Una decina di anni fa, in un corso di storia, Giancarlo Schiaffini disse che il jazz era finito negli anni sessanta. Su due piedi questa affermazione mi spiazzò ma a ripensarci oggi mi pare di condividere sempre di più questa idea. In pratica il jazz ha bruciato molto rapidamente le sue tappe e nel corso di poco più di 50 anni è nato e si è evoluto, arrivando a quella che negli anni 60 è stata la rottura delle basi consolidate in precedenza. Non che la ricerca da allora non sia andata avanti, ma quella “rivoluzione” ha fatto sì che finisse quel corso e ne iniziasse un altro.



JC: Ma che cos’è il jazz per te?


SR: Ricollegandomi alla domanda precedente il jazz oggi (se ha ancora senso usare questa parola) è una musica di commistione di più generi. Forse quello che può contraddistinguerlo è l’improvvisazione ma, il linguaggio jazzistico, è oggi solamente uno dei possibili linguaggi da usare. Ci sono grandissimi musicisti che improvvisano facendo una musica più vicina all’ambito contemporaneo o folclorico. Con Quilibrì, il gruppo di Andrea Ayace Ayassot, suoniamo improvvisando attorno a cellule melodico-ritmiche che sono un po’ la somma di tante musiche folk: dalla musica africana a quella indiana. Non suoniamo prettamente jazz, ma l’improvvisazione resta il centro di questa musica.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


SR: Negli ultimi anni l’idea centrale del mio modo di fare musica tenta di raggiungere un equilibrio fra ricerca e fruibilità. E’ un po’ il concetto che sta dietro a S’sBM plays Subsonica. Suonare brani molto noti riarrangiandoli in maniera decisamente invasiva e sperimentale cosicchè il pubblico possa più facilmente capire il percorso intrapreso. E’ chiaro che dipende da come lo si fa, ma penso che l’idea di cercare di incrementare il pubblico sia importante, soprattutto nel momento in cui è evidente che l’interesse per il jazz a livello di pubblico sta decisamente diminuendo.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


SR: Sembra scontato dirlo ma la musica la si fa insieme e non da soli… Perciò penso che una possibile evoluzione della musica improvvisata potrà arrivare solo dall’idea di personalità musicali legate al “gruppo” e non da quella del bravo solista. Da un certo punto di vista alcuni gruppi rock possiedono molta più varieta timbrica e di arrangiamento rispetto al tipico trio che accompagna il grande solista in cui i ruoli musicali dei singoli strumenti sono molto più connotati, standardizzati e direi meno liberi. I grandi gruppi jazz del passato avevano ben chiara quest’ idea.I gruppi di Ellington, Davis, Coltrane, Mingus, che avevano chiaro questo concetto, sono a mio parere fra quelli che più hanno fatto evolvere il jazz. Mi pare che in questo preciso momento storico (sicuramente tutto ciò è legato ai tristi risvolti sociali e politici che stiamo vivendo) si stia fortemente perdendo questa idea. Mi sembra di vedere tanti bravissimi giovani musicisti, ma pochi gruppi che con tenacia e concentrazione riescono a portare avanti un lavoro collettivo.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


SR: T.R.E. è un gruppo che da quasi dieci anni porta avanti una ricerca comune legata all’affinità musicale che ci unisce da tempo. E’ in uscita nei prossimi mesi per “A-beat” il nostro quarto disco. Un CD doppio dal titolo “Lyrics” che ci vede esposti nella “spinosa” questione di affrontare degli standard della tradizione americana. Sono particolarmente affezionato al secondo disco di questo gruppo “Riflessi”. Si tratta di un disco registrato in studio durante una sessione di improvvisazione totale. Ricordo ancora molto bene l’intensità e la profondità dell’atmosfera che si respirava in quella giornata. E ritrovo tutte queste sensazioni nelle tracce che sono poi andate a costituire il disco.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


SR: Devo dire che frequentemente mi capita di trovare e scoprire maestri nei vari campi dell’esistenza. Poi come spesso capita si va avanti, si cresce, si uccide il maestro e se ne trovano altri. Anzi ogni tanto mi è capitato di avere delle grandissime delusioni conoscendo di persona quelli che consideravo maestri. Citarne qualcuno a discapito di altri mi sembra un po’ difficile ed antipatico. E poi ci sono persone che mi hanno dato il loro insegnamento con un solo sguardo, senza nemmeno che ci scambiassimo una parola. C’è una donna molto anziana che incrocio nel quartiere in cui abito, ogni volta mi colpisce: è minuta e fragile ma ha una potenza e una serenità nello sguardo che cerco spesso di tenere a mente.



JC: Quale è per te il momento più bello della tua carriera musicale?


SR: Lo so, sembrerò sentimentale ma il mattino in cui è nato mio figlio Sebastiano, sei anni fa, tornando a casa dall’ospedale ho cantato tutta la melodia di “5,41”, un brano che fa parte di “Vocifero vol 2”. Sicuramente fra i momenti più gratificanti per un musicista-compositore è quello della creazione. E in quel particolare momento la creatività era biologicamente raddoppiata.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


SR: Come dicevo prima mi piace portare avanti le collaborazioni negli anni in maniera tale che si possa crescere insieme, così da poter andare più lontano. Non amo particolarmente le collaborazioni una tantum. Ayace è un musicista con cui suono da 13 anni, ho fatto parte dei gruppi suoi e lui dei miei. Con Stefano Battaglia e con Marco Zanoli (gli altri due componenti di Vocifero) abbiamo suonato per due anni in giro per l’Italia e in queste occasioni siamo riusciti a trovare un “suono”. Les Diables Bleus è un gruppo con diverse sfaccettature ma il nucleo base, con Jean Luc Danna (fantastico batterista francese) e Guido Canavese, esiste da 6 anni e in tutto questo tempo è veramente molto cresciuto. In più ci sono S’sBM e T.R.E. di cui ho già parlato prima.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


SR: In questo periodo ho portato a conclusione il lavoro sui Subsonica e quello sul Blues che, dopo più di quattro anni di impegno, avrà la forma di un disco doppio in cui sono presenti tre diversi trio. Uno piano- contrabbasso- batteria più jazzistico, l’altro armonica- dobro banjo- contrabbasso che suona musica più astratta con i timbri del blues rurale e infine l’ultimo in cui processo i suoni del secondo trio per costruire gli ambienti per due voci, Paolo Bonfanti al canto e Michele Di Mauro alla recitazione. Il progetto nuovo a cui sto lavorando è un disco in duo con Lalli, bravissima cantautrice con cui collaboro da anni. Nel disco non suonerò il contrabbasso ma tratterò frammenti audio di contrabbasso da me suonato in “Riflessi”, il disco di cui parlavo prima.



JC: Parlaci dei tuoi impegni futuri.


SR: A fine gennaio saremo in studio per registrare il disco nuovo di Quilibrì, il gruppo di Ayace: pezzi bellissimi e pieni di contenuti. Registrare con lui è perennemente una sfida, ogni volta ti trovi di fronte a nuove prove, riesce sempre a spingere un po’ più in là il limite. Poi sarò in Svizzera per alcuni concerti e la registrazione di un nuovo trio con Franz Hellmuller e Marcelle Papaux. Non per fare l’esterofilo, ma la situazione musicale svizzera, dal punto di vista della recepibilità del pubblico, delle strutture e delle istituzioni è veramente notevole e direi che ha dell’incredibile paragonata a ciò che succede in Italia.