Hayward-Park-Smith-Coxhill – Mathilde 253

Hayward-Park-Smith-Coxhill - Mathilde 253

SLAM – SLAMCD 528 – 2010




Charles Hayward: batteria, percussioni, melodica

Han-Earl Park: chitarra

Ian Smith: tromba, flicorno

Lol Coxhill: sassofono






Traversatore di varie epoche e stili, personalità quanto meno estrosa e spesa verso molte collateralità, il batterista Charles Hayward ha mostrato da sempre spirito eminentemente avanguardista, prima praticato nel progressive (e con compagni tra cui una certa generazione dei Gong o Phil Manzanera) affinando quindi il tiro con disturbatori civili quali Fred Frith o Bill Laswell, senza aver mancato la frequentazione di un certo inquieto pop tale Everything but the girl.


Sempre con orecchio attento alle sperimentazioni sul ritmo e approfondendone le ampie e spesso impensate implicazioni psico-acustiche, mantenendo alta la guardia sul piano più dell’interrogativo formale che della provocazione aperta, eccolo riproporsi in una performance del free direttamente disceso dalla prima frange del movimento ma con chiare ascendenze dal volto più rapace dell’avanguardia accademica, associandosi ad uno sperimentatore della chitarra e teorico di forme trasversali come Han-Earl Park, e ad una “testa di ponte della scena improvvisativa londinese”, il trombettista Ian Smith, e last but (indubbiamente) not least, ritrovando un vecchio compagno d’armi improprie e rivoltate note, il veterano Lol Coxhill, goliardico e insieme “diversamente purista”, protagonista di un suo lungo corso di estetici sarcasmi.


Ci s’interroga se queste energie, portate a lievitazione da sismi a scosse progressive, intese come (anti-) gioco di forme abbiano mai davvero essere inteso attentare alle fondamenta del consumo musicale: ma come da copione (sempre poco prevedibile, d’altra parte anche un limite in sé del fenomeno) l’incontro esplicita nella forma la memoria iconoclasta del movimento originario, tentando di mantenere fuori schema le pulsioni dell’istantaneità. Ora determinando la disintegrazione del rispetto melodico, ora sposando le morfologie militaresco-circensi care all’ineffabile Coxhill, il quartetto esita in un free “da laboratorio” scandito da concitazione fisica e lirismi lacerati, ma generando in chi volesse osservare l’altra facciata del destrutturato arazzo la legittima interrogazione se la pratica della forma libera non sia rimasta spettatrice di sé stessa rinunciando alla (comunque donchisciottesca) missione di ruolo trainante verso una certa rieducazione dell’ascolto.


Ronzante, provocatorio, mai davvero eccessivo ma comunque sfuggente, il contributo di questi quattro moschettieri non è eccepibile sul piano del coinvolgimento, testimoniando un action-playing contemporaneamente colto, “palestrato” e pregno di flussi idiosincrasici.