Slideshow. Pino Russo

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Slideshow. Pino Russo.


Jazz Convention: Pino, nel tuo curriculum spicca subito un dato: la laurea in biologia! Credo l’unico jazzman italiano o forse al mondo. Hai mai pensato a qualche nesso tra il mondo appunto della biologia e quello del jazz?


Pino Russo: Ho cominciato a suonare relativamente tardi, intorno ai tredici anni e di conseguenza le prospettive di una vita dedicata alla musica erano molto lontane. Ho intrapreso gli studi universitari come fanno quasi tutti i maturandi liceali e mi sono ritrovato biologo con tesi in farmacologia e diverse pubblicazioni scientifiche prima della laurea. Sicuramente gli studi scientifici hanno contribuito non poco alla mia formazione e mi hanno offerto interessanti strumenti di riflessione che ho applicato alla didattica. Nessi tra jazz e biologia non ne trovo, ma mi è servito molto.



JC: Torniamo ora alla musica stricto sensu. Parlaci del tuo disco in solo (dell’anno scorso) che ha ricevuto molti e meritati elogi. Come si arriva a fare un disco e in questo caso a farlo in solo?


PR: Dopo tutte le possibili esperienze in piccole formazioni ho prodotto praticamente il sogno di sempre: suonare in solo. Ho ammirato l’iter artistico di Barney Kessel e di Joe Pass che vedevo suonare spesso in solo e ne ero affascinato. È trascorso del tempo, sono cresciuto ed ho realizzato questo mio obiettivo. Nel cd “Darn That Dream” registrato dal fraterno amico Massimo Camarca, ho raccolto importanti standard con cui ho avuto il piacere di misurarmi, in diretta, senza sovraincisioni o l’uso di elettronica: niente artefatti, solo le mani. Ho suonato quello che mi piace e che è parte del repertorio che abitualmente eseguo nei concerti in solo.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


PR: Ero un bambino di sei o sette anni e mi affascinavano le chitarre elettriche, la batteria e i complessi beat; erano gli anni Sessanta e ogni occasione di veder suonare era come un tuffo in un oceano sconfinato e sconosciuto, tutto da scoprire.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


PR: Intorno ai vent’anni suonavo nei dancing, ma non era proprio il mio ambiente ideale, così ho smesso e ho fatto l’incontro chiave della mia crescita musicale: ho conosciuto Gianni Negro. Con lui ho studiato per tre anni armonia e tecnica dell’improvvisazione e da quel momento ho trovato la direzione: quello che volevo suonare era jazz. Poi le cose si evolvono da sole, basta avere la pazienza di coltivarle e lasciare trascorrere il tempo necessario per raccogliere. A volte ce ne và tantissimo.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


PR: Ha forse avuto mai un significato? Me lo chiedo e non so rispondere. Per me esiste un modo di fare musica un po’ fuori dai generi, sempre legato al principio dell’improvvisazione, ma rispettoso degli stili. Tutto in divenire e possibilmente coerente.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


PR: La continua trasformazione di un contenuto musicale, che può così prendere la forma che l’esecutore immagina. Poter uscire all’occorrenza dalle forme e miscelare in modo continuo tutti gli elementi musicali di cui si è a conoscenza senza vincoli e senza pregiudizi. Mi piace molto fare citazioni dei grandi della musica barocca o del novecento e congiungere tra loro elementi apparentemente lontani e opposti. Per me jazz è “trasformAzione”.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


PR: Cerco di interpretare il senso della composizione con cui mi confronto indipendentemente dal fatto che sia originale o uno standard e ne cerco una lettura che è sempre data dal momento esecutivo e che si richiama ad uno stato d’animo in particolare. Per esempio quando suono “Silence” di Charlie Haden penso a mio padre o eseguendo “Mas Que Nada” immagino la foresta amazzonica.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


PR: Il jazz si è sempre evoluto e credo che continuerà a farlo con sempre maggiori contaminazioni. Improvvisavano i contemporanei di Bach e quelli di Miles; continueranno quelli del futuro.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella chitarra, nella musica, nella cultura, nella vita?


PR: Il mio modo di suonare è figlio di tutti gli incontri diretti o indiretti con i grandi maestri e tra questi Giorgio Tonin con cui ho studiato chitarra classica, Gianni Negro da cui ho imparato l’armonia, Barney Kessel che è stato il primo modello ispiratore e Jim Hall, esempio di modernità chitarristica. Il passato è ricchissimo di personaggi a cui ispirare le proprie ambizioni di crescita personale: J. S. Bach, Leonardo da Vinci, Dante, Kant, potrei perdermi in un elenco infinito. Si può imparare anche dall’uomo della strada e dall’extracomunitario, basta averne voglia.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


PR: Ogni mattino mi alzo presto e studio la chitarra, quello è in assoluto il momento più bello, anche se non considero la chitarra un fine, ma un mezzo. È il mezzo con cui racconto la mia interiorità attraverso la musica.



JC: Sei anche didatta. Quali sono le difficoltà nell’Italia di oggi, i cui governi certo non brillano per gli aiuti al mondo della cultura e della musica in particolare?


PR: Credo che sia sotto gli occhi di tutti: sempre meno fondi alla cultura e di conseguenza anche alla musica. E pensare che senza conoscenza e cultura mancheranno gli strumenti minimi per apprezzare o valutare non solo l’arte, ma anche per compiere assennate scelte per il futuro. Gli studenti oggi vengono in conservatorio per imparare e si trovano di fronte ad una situazione che non promette nulla di buono: la televisione popolare ha ucciso e continua ad uccidere la cultura.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


PR: A maggio la Carish presenterà una raccolta monografica di mie composizioni per chitarra e prevedo per l’autunno un altro cd in solo. Anche se continuo a collaborare con altri pregevoli musicisti, il mio più profondo interesse resta sempre il suonare in solo.