Franco D’Andrea. Sorapis

Foto: Andrea Buccella










Franco D’Andrea. Sorapis.


Sorapis sembra un termine esoterico, antico e misterioso. Ci riporta all’Egitto. Ma poi, con sano realismo, si scopre che è il nome di un monte della catena delle Dolomiti. È il monte di Franco D’Andrea, della sua terra. Se vogliamo spingerci più in là e vogliamo leggerlo in un altro modo, diremmo che è la metafora artistica di un musicista che da anni scala montagne cercando nuove vette musicali. È la sua caratteristica nonché peculiarità: non fermarsi mai e sperimentare, trovare nuovi suoni e soluzioni armoniche; andare oltre i propri limiti. Sorapis è l’ultimo disco in ordine cronologico di D’Andrea. Questa volta lo ha realizzato in studio, maggio 2010, con il suo tradizionale quartetto. È un disco importante per il jazz italiano e non solo. Segna nuovi traguardi. La statura artistica di Franco D’Andrea ha raggiunto livelli di eccellenza e lo conferma il premio che ricevuto in Francia quale miglior jazzista europeo dell’anno.



Jazz Convention: Sorapis è il secondo disco che incidi con l’etichetta El Gallo Rojo…


Franco D’Andrea: Dovevo giustamente concedere il bis ad un cooperativa così in gamba. Ho sempre considerato El Gallo Rojo una cooperativa molto sui generis. Perché è una organizzazione dove, in realtà, non c’è un vero capo. C’è qualcuno che coordina, ma sono tutti personaggi di notevole caratura. E poi sono in pochi. Parliamo di tredici o quattordici componenti. Li ho conosciuti quasi tutti ed ognuno ha una personalità spiccata e un suo mondo. Sono riusciti a creare qualcosa insieme. È raro che gente con queste personalità riescano a mettersi d’accordo e combinare qualcosa. Quando succede è talmente straordinario che per me diventa una ghiotta occasione conoscere personaggi di tale caratura. Quindi sono ben contento che mi abbiano fatto realizzare questo secondo disco. La copertina è diversa dalla prima e l’ha pensata Francesco Chiacchio. Ha fatto un lavoro speciale perché è venuto ad un nostro concerto a Firenze per ispirarsi e realizzare il progetto grafico.



JC: Perché hai scelto questo titolo, Sorapis?


FDA: Sorapis è il monte delle Dolomiti. Sono delle montagne fantasiose, delle sculture che la natura ha inventato con grande risultato. Sono stimolanti dal punto di vista artistico. Sorapis mi piace anche per il suono. Mi ricorda l’Egitto ed è anche il titolo di un pezzo che feci quarant’anni fa, all’epoca del Modern Art Trio, ma che non registrammo mai. Il brano compare nel primo disco che incisi in piano solo con la Red Records dove Sorapis appare come uno dei titoli. Non l’ho mai registrato in gruppo. È rimasto sempre lì fino a questo momento. È un pezzo difficilissimo. All’epoca scrivevo molto e in maniera difficile. Ho cambiato atteggiamento nel giro di quindici anni. Adesso, al contrario, scrivo pochissimo e in maniera minimale. Ho cercato di trovare delle sintesi, minuscole, che dessero la possibilità d’improvvisare in una maniera diversa, creare il brano reale. Il vero pezzo nel jazz è molto spesso la performance globale. Queste piccole notazioni che io do sono strutturali, danno una corporatura forte, di vario tipo. Un’idea melodica insieme con un’idea ritmica, armonica, che possano creare un sound preciso e forte e dare l’impressione che possano svilupparsi anche in un tempo lunghissimo. Che ci sia molto da lavorare sopra. È un po’ in fondo l’idea di Monk. Anche lui era a suo modo minimale.



JC: Sorapis è registrato con il tuo “solito” quartetto, Andrea Ayassot al sax alto e soprano, Aldo Mella al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria…


FDA: Sorapis doveva essere un disco che avrei voluto fare colorato. Avrei voluto magari sovrapporre qualcosa. Della serie, dopo aver fatto una specie di base con il quartetto, nei pezzi spaziosi avrei voluto mettere qualcosa di elettrico. Poi, magari, qualcosa di truccato come so io e poi aggiungere degli interventi di D’Agaro al clarinetto e Ottolini al trombone, in maniera da creare un affresco ancora più colorato. Questo sfruttando l’occasione di essere in studio. In questo disco abbiamo suonato come facciamo usualmente. Con materiale nuovo e cose che non avevamo usato. Contestualmente abbiamo suonato a briglie sciolte e prodotto due ore e mezzo di musica. Da queste ho tolto un sacco di roba e sono rimasti cinquantasei minuti. A posteriori va raccontata una storia: io volevo provare a fare delle sovrapposizioni, alcuni brani si adattavano tranquillamente: Erano spaziosi con delle cose allusive. Allora mi son detto: faccio io da cavia. Se funziona con me, andiamo avanti. Mi metto li con il piano elettrico, cerco dei suoni, vengono fuori delle cose. Proseguiamo per due ore e mezzo. Al termine ho detto: qualunque cosa aggiunga non migliora. Mi sono reso conto dopo giorni di non essere riuscito a cavarci nulla perché fino ad allora noi avevamo suonato con un reticolo abbastanza denso. Il fatto di aspettare che qualche spunto arrivasse, ha creato in noi l’idea di suonare più spaziosi ma ha dato vita ad una musica diversa, nuova ed anche piena di colori. Allora mi sono detto: sarà l’ennesimo disco del quartetto, ma ci sono cose nuove, nuovi spunti.



JC: Sorapis contiene otto brani di cui tre firmati dal gruppo, quattro sono a tuo nome e poi c’è un pezzo di Duke Ellington…


FDA: I tre pezzi composti da tutti noi, di cui il primo è Tritoni, altro non è se non unico intervallo, puro, inteso come sorgente di qualcosa che poi sarebbe successo. Ne abbiamo suonati diversi nelle due ore e mezza, ma abbiamo scelto questi qua. I primi due brani, Tritoni e Seste, sono basati attorno all’idea di lavorare su una quinta bemolle, che è il tritono. Esso è chiamato diabolus in musica, perché è di epoca medievale ed impressionava perché imbarazzante, ambiguo come il diavolo. Curiosamente era l’intervallo tipico dell’accordo di settima che sott’intende molto spesso con il blues. Quindi il tritono è l’anima. Poi c’è Old Jazz che è una mia vecchia composizione che feci con Bruno Tommaso e Roberto Gatto nel disco Kick Off. L’ho ripescato dandone una versione ancora più vecchia. L’ho avvicinato alle origini. Mi piace avere una divaricazione tra cose che puntano verso il futuro e altre alle origini, alle radici. Per esempio T.M. è dedicato palesemente a Monk, visto come un personaggio chiave delle radici del jazz e della ultra modernità. È un po’ il simbolo di quello che a me piace. Poi c’è il tema sentimentale. Io ho cominciato con la tromba e il clarinetto. Ho provato l’ebbrezza di essere una front line nel jazz. Mi è rimasta sempre l’idea che prima o dopo avrei voluto fare qualcosa in quella chiave. L’ho fatta, per esempio, con un gruppo che si chiamava Five. Lo avevo messo su per il disco de L’Espresso. Era concepito in questa maniera. Ha a che fare con quel mondo che io continuo a sviluppare soprattutto con il trio, ma anche il quartetto non ne è immune. Solo che la dose di avventura verso il futuro è maggiore nel quartetto. Mentre nel trio è l’opposto, più ritorno al passato. Nello stesso tempo le due cose coesistono. C’è un pezzo che è fatto da tutti noi e si chiama Treble and Bass. Esso parte da una semplice idea: suonare gli estremi della tastiera e da li cominciare delle cose liberamente. È palese tra di noi che tutto deve essere dedicato alla ricerca timbrica. È un brano fatto molto più di timbri che di note. Cerco di tornare sempre agli estremi riempiendo ogni tanto di qualcosa la parte centrale. Gli altri musicisti di conseguenza creano delle soluzioni.



JC: Lo avete inventato in studio?


FDA: È stato inventato in studio. In quel posto succedeva di tutto. Non ci siamo posti dei limiti. Avendo registrato per più di due ore sapevamo che potevamo selezionare. Poi c’è il pezzo di Ellington, The Single Petal of a Rose. Voglio sempre mettere almeno un brano che ricordi personaggi come Duke, Billy Strayhorn, chiunque sia un musicista di quel calibro. Tornando a T.M., che è un pezzo breve, si sente che stiamo parlando di Monk, ma del pianista che sta tornando verso la tradizione, verso lo stride piano. L’atmosfera musicale, quella di base, è proprio degli anni venti. Sono due pezzi, Old Jazz e T.M., che ripercorrono la parte del disco più antica. Il resto è avventura in avanti.



JC: Riprendendo Ellington e The Single Petal of a Rose. Cosa ti ha spinto a scegliere, nel vasto repertorio ellingtoniano, proprio questo brano?


FDA: È tratto dalla Queen’s Suite e curiosamente è un pezzo che Ellington non fece con l’orchestra ma lo eseguì con pianoforte e contrabbasso. Io vedo sempre in Ellington e Strayhorn una modernità molto più forte di quello che si può pensare. Ho bisogno di essere allacciato a questi grandi personaggi perché mi piace essere in quella grande corrente che è la storia del jazz e di essere onorato di farne parte in qualche maniera. Mi piace l’idea che qualcuno mi abbia dato la staffetta ed io vado avanti, consegnandola a qualcun altro. Mi piace sapere che questa corrente continui.



JC: Parlaci di Latin Sketch?


FDA: È un pezzo che feci, credo, fine anni ottanta, inizio novanta. C’è una sola edizione di questo brano ed è nel disco Enrosadira della Red Records, in duo con Luis Agudo. Prima di adesso non avevo una versione di gruppo, con il quartetto. Mi piace riprendere vecchie cose riportandole al colore di oggi. Questo gruppo è molto coeso. Stiamo insieme da quindici anni. Penso di incidere ancora pochi dischi e decidere da solo cosa voglio fare. Ho ancora un debito con Piangiarelli. Dovrei fare un disco su Charlie Parker in trio, con Massimo Manzi ed Ares Tavolazzi.



JC: Gli ultimi due brani del disco sono Winterpromenade e New Calypso. Sono pezzi tuoi. Ce li puoi commentare?


FDA: Sono sempre timoroso quando bisogna avventurarsi nei territori latin jazz. Molti grandi jazzisti si sono fatti male tra cui anche Davis in Fiesta. Credo che il latin lo sappiano fare bene coloro che vi sono nati. New Calypso è sviluppato in maniera particolare. È un pezzo che io avevo fatto in un altro contesto. Forse dieci anni fa quando suonai quella serie tipo Round Riff, con il pianoforte e due contrabbassi. Anche li era una situazione molto diversa, particolare. Lo sviluppai in quel modo perché la formazione era un’altra. Sentivo che aveva delle potenzialità, poteva fornire nuovi spunti. E così è stato. È un pezzo breve. Dura tre minuti. Però ha una sua forza. È stato montato perché era la fine di un pezzo di una lunga improvvisazione. Lo abbiamo costruito in maniera tale che potesse avere un capo ed una coda. Mi è piaciuta l’idea di fare qualcosa tutti insieme. Abbiamo inciso anche tre pezzi improvvisati. Chiaramente è tutto un lavoro di post produzione, differentemente dai due dischi precedenti che erano entrambi registrati dal vivo. In questo disco non c’era una sequenza predeterminata. Si trattava di crearne una. Winterpromenade è l’unico pezzo lungo, nel senso che ha molte battute. È l’eccezione che conferma la regola. È un brano lento, melodico. Sono due chorus in tutto. Improvvisiamo in mezzo delle cose però il tema continua a fluire, un po’ come succede in Nefertiti di Miles Davis. Per me il vero pezzo di jazz è la performance come è avvenuta. Round Midnight fatto da Monk in quella situazione; o lo stesso brano fatto da Davis in un’altra circostanza; oppure da Solal da solo. Queste sono le vere composizioni.



JC: Restano Air Waves e Beatwitz…


FDA: Air Waves è posizionato sull’Africa. Ha un riff di basso tipo africano, molto forte. Beatwitz è un ricordo del Modern Art Trio. La storia di questo pezzo è curiosa. È un brano che arieggia Monk, ma anche la tradizione antica. Mentre improvvisavamo Beatwitz mi sono accorto che Aldo Mella continuava a seguire ancora Air Waves. Io ogni tanto suonavo questo nuovo pezzo, ogni tanto tornavo al vecchio. C’è stato un lungo momento di ambiguità e questo ha creato un contrasto forte. Poi ad un certo abbiamo virato su Beatwitz, al contorno del pezzo, un po’ nell’ottica del Modern Art Trio. Poi è arrivato il tema finale che ha chiuso tutto. Mi piace improvvisare delle cose che sembrino avere una struttura preordinata ma che invece non la hanno. Non avrei mai immaginato che Beatwitz si sarebbe incanalato in un cunicolo africano. Ringrazio Aldo Mella per questa idea.