Daniele Santimone: chitarra
Ares Tavolazzi: contrabbasso
Riccardo Paio: batteria
Achille Succi: sax alto, clarinetto, clarino basso
Marco Tamburini: tromba, flicorno
“Nel cosmo del Mikrokosmos si concentrano genialmente, con energia e chiara definizione, tutti gli aspetti della figura di Bartók: compositore, pianista, etnomusicologo, insegnante, persona umana” – questo secondo l’ammirata prefazione d’epoca del lunare, geniale, prezioso pianista Bruno Canino, già grande interprete d’avanguardie.
Comunque lo si voglia considerare, tra i grandi del ‘900 l’ungherese Bela Bartók trovò un grande punto di forza (come, ma in termini diversi, l’altrettanto grandissimo e posteriore György Ligeti) nel voler recuperare la sintassi della musica popolare magiara, impostandovi tutta una sua personale progressione compositiva che, se non ebbe fortune tra i contemporanei, ne fanno un osticamente originale caposaldo dei grandi innovatori del secolo passato.
In particolare la raccolta pianistica Microkosmos, elaborata nell’arco di molti anni, fu ulteriore dimostrazione delle cure pedagogiche dell’Autore, e tuttora indicata come tra i più grandi corpus di formazione del pianista o del musicista accademico tout-court, non mancando chi volle ravvisarvi (senza poi esagerare troppo), oltre che una scuola di metodo, una “idea creativa e democratica del’apprendimento e un prezioso riferimento etico e deontologico”).
Quale atteggiamento dunque tenere, e con tali premesse, nel riproporre in jazz-formula tali materiali… Ma non si ravviserebbero, sulle prime, timidezze d’approccio né troppo ibride chimere di linguaggio: partendo con rotta spedita e quadrature solide sull’iniziale Mikrocosmos 42 (che subito dà il via libera al vissuto solismo di Ares Tavolazzi, alle pulite e controllate emissioni della tromba di Marco Tamburini e alle più acide contorsioni dell’alto di Achille Succi), liberando con più agi le corde della chitarra di Santimone nella successiva Mikrocosmos 61, e procedendo in buona sostanza entro tali cornici lungo la raccolta di sette miniature bartokiane senza mai veramente incontrarne lo spirito, e lasciata infine decantare la lezione del Maestro ungherese di folk dissonante, i cinque si sperimentano nell’ epilogo delle conclusive, santimoniane Vedremo e Ballad, transiti piuttosto di quiete e senza scosse, pur apprezzando il febbrile lirismo dell’ultima, ma ci si chiede perché mai andare a scomodare il grande làscito del grandissimo avanguardista, esitando poi in una così poco sorprendente operazione jazzy, in cui nulla di veramente nuovo accade, (prescindendo dall’apparente latitanza di elementi pedagogici o etici, comunque li si intenda) mortificando e vanificando (si spera involontariamente) le grandi frustrazioni del percorso terreno del coraggioso riferimento.
Non era affare dei Nostri, magari, rivitalizzare lo spirito e gli impeti creativi dell’Autore o piuttosto farlo agitare nella tomba, avendo peraltro la certezza che questi si sia già – e definitivamente – girato dalla parte opposta.